In realtà l'AMO non esiste. Però si vede…

In un’intervista a Science vent’anni fa, Michael Mann inventava il termine “Atlantic Multidecadal Oscillation” (AMO) per un fenomeno periodico che descriveva così l’11 febbraio scorso:

  • un’oscillazione interna del sistema climatico che risulta dalle interazioni tra le correnti oceaniche del Nord Atlantico e l’andamento dei venti. Queste interazioni, si pensava, portavano ad alternanze di riscaldamento e raffreddamento sul Nord Atlantico extratropicale su scale temporali di 40-60 anni.

Se lo pensava lui, qualcosa di vero doveva esserci. Frotte di ricercatori trovarono effetti sul clima di un “parente” atlantico dell’ENSO (il Niño e la Niña del Pacifico centrale), anche se molto più lento, con un’alternanza di acque calde e fredde. Lo legavano all’AMOC (Atlantic Meridional Overturning Circulation), altre oscillazioni nel Nord Atlantico e nell’Artico, in cicli ed epicicli di 40, 50, 60 o 70 anni.

  • Come ho detto altrove, a volte mi sembra di aver creato un mostro nel dare un nome a quell’oscillazione climatica putativa.

Con trucchetti statistici, certi negaioli sostenevano che le variazioni della temperatura osservate di recente erano dovute pertanto a cause naturali. Judith Curry, per esempio, ne traeva un’onda da stadio e un global cooling iniziato nel 2000.
(Pro-memoria per i distratti: i due decenni successivi sono stati i più caldi registrati da un paio di secoli a questa parte.)

L’apparente “pausa” del tasso di riscaldamento globale all’inizio del decennio scorso sembrava darle ragione. Dal 2013 – proprio mentre Mann stava cominciando a smantellare l’AMO – sul suo blog, su quotidiani compiacenti e perfino in una testimonianza davanti a una commissione della Camera statunitense nel dicembre 2015, Curry accusava i critici della sua ola, gli autori dell’IPCC e l’odiato Mann soprattutto, di catastrofismo e di negazionismo (sic, “climate denial”).
Mann non lo ha dimenticato:

  • Queste analisi sono state usate da alcuni per negare, tra altre cose, l’impatto del cambiamento climatico sulle stagioni sempre più attive e distruttive degli uragani atlantici, attribuendo l’aumento degli ultimi decenni a una presunta risalita dell”AMO”.

Un anno e rotti fa, su Nature Communications, Mann et al. facevano analisi spettrali più rigorose di quelle di Mann et al. in passato e decine di simulazioni con i modelli CMP5 senza trovare traccia di un’AMO pluri- o intra-decennale che fosse. Il segnale proprio non voleva saperne di emergere a cicli di 40-50 anni dal rumore di fondo.
Mann et al. citati in bibliografia avevano preso un abbaglio, speravano di averlo corretto e che i loro risultati fossero “un motivo per riesaminare l’evidenza di oscillazioni a bassa frequenza nei dati paleoclimatici vicari” (proxy) e nei modelli che simulano il clima futuro.

L’11 febbraio, Mann scriveva:

  • Oggi in un articolo su Science, insieme a colleghi abbiamo portato quello che consideriamo l’evidenza più definitiva del fatto che in realtà l’AMO non esiste

Ma se l’aveva già detto nel gennaio 2020!

L’articolo è uscito oggi, l’ho letto e non è mica tanto vero. Sia con il loro metodo di analisi spettrale che nei modelli più raffinati (CMIP5 Last Millennium multimodel experiments), un su e giù vagamente periodico delle temperature si vede benissimo nel tempo, nello spazio e nel “bilancio energetico”.

Solo che è dovuto a una coincidenza. Nell’era preistorica e in parte nel millennio scorso, la forzante ricorrente era dovuta a “eruzioni vulcaniche esplosive” nella fascia dei Tropici.

  • Adesso abbiamo chiuso il cerchio. Negli ultimi dieci anni, io e i miei collaboratori abbiamo indagato sull’origine del segnale putativo dell’AMO e siamo arrivati alla conclusione inevitabile che l’AMO (diversamente, per dire, dei R.O.U.S.in realtà non esiste. Durante l’era storica è il prodotto di una competizione tra riscaldamento da effetto serra e raffreddamento da solfati in aerosol, e durante l’era preistorica di una forzante vulcanica alla quale nei secoli scorsi è capitato di avere un andamento pluridecennale.

Sembra detta l’ultima parola?

Su Science invece, gli autori sono meno categorici. Propongono “ipotesi da verificare con un’analisi completa dei dati paleoclimatici vicari ora disponibili”,  cioè dati da calibrare con maggior cura magari proprio usando il loro metodo, e con “un’analisi dettagliata “degli esiti dei modelli usati per simulazioni millenarie e di quelli nuovi (CMP6) usati come controllo.

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Oggi per Action Aid è un giorno speciale. Doveva restare tra noi e gli amici di Marco De Ponte su FaceBook, ma c’è stato un leak. Complimenti e auguri anche dall’oca s., Marco.